La candela accesa in casa “a la veia” e il “piato dei morti” facevano parte del nostro culto domestico dei defunti.
Ai morti che ritornano a casa si preparava un piatto con gli stessi cibi consumati dai viventi, per dare loro il benvenuto con un simbolismo arcaico, ripetuto con una ritualità di cui si era perduto il significato più profondo.
Si dava grande importanza, un tempo, al brazadelon, e al pane dei morti: si credeva che i morti riconoscessero nel modo di fare la pasta la mano che l’aveva preparata. Ma anche le faoline (fave), le miole de zuca (semi di zucca), le patate americane (patate dolci), i maroni (castagne e marroni), godevano larga diffusione e si consumavano per tutta la durata dell’ottavario dei morti. I semi di zucca si abbrustolivano sulla brace con la “paleta” del focolare e le bucce delle fave dovevano essere (quella sera) gettate sotto la tavola, contrariamente alla regola della fame che consigliava di masticare frutto e buccia. Forse qui c’è una reminiscenza dell’episodio citato nei Fasti di Ovidio, in cui Romolo perseguitato dal fantasma di Remo, ne placa lo spirito mangiando fave e gettandone il baccello dietro le spalle. In certe zone si preparavano le favete, pasticche di zucchero.
Le fave erano valutate dagli antichi come simbolo di morte e di vita; la patata e il seme di zucca hanno la proprietà di conservare a lungo la vita e di riprodurla di nuovo, moltiplicandola. Il ciclo seme-pianta-seme rappresenta questo processo. La stessa rotondità del brazadelo ricorda la forma del sole, sorgente di vita e il vino, di cui si spandevano alcune gocce sul tavolo, conserva un significato liturgico. “È evidente la relazione con i pranzi rituali per i defunti di tutta la cultura occidentale popolare” (Leydi), richiamati anche dal Propp che così li descrive: «Essi versano anche il primo cucchiaio degli alimenti liquidi direttamente sul tavolo e fanno anche questo per i defunti». E commenta: «Quest’abitudine è senza dubbio molto antica, già dimenticata. La stessa cosa veniva fatta dai primi romani che ritenevano che ai loro conviti partecipassero anche i lari e i penati ovvero la divinizzazione degli avi».
Tratto da: “Mondo contadino” di Dino Coltro- Arsenale Editrice