Il nome carnevale deriva da “carni levamen” ossia “sollievo alla carne” e dunque “libertà temporanea concessa agli istinti elementari” in riferimento alle orge gastronomiche che esaurivano le ultime scorte di carne prima della bella stagione. Tradizione popolare vuole che di martedì e giovedì grasso si debbano fare 7 pasti, per resistere al successivo digiuno quaresimale che prelude alla Pasqua. Di queste feste un primo nucleo è costituito dai Saturnali che la Chiesa, cercò di espellere dalla loro collocazione tradizionale (sopravvissuti nella notte di San Silvestro).
Il Carnevale, periodo di sregolatezza, inizia ufficialmente il 17 gennaio. Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo si svolgevano a Roma, alcune cerimonie dalle connotazioni carnascialesche, le “Equiria“, corse rituali di carri trainati da cavalli che dovevano propiziare Marte al quale era dedicato il primo mese dell’anno “martius” (padre di Romolo e Remo). Gli spettatori che seguivano le gare vedevano nell’arena il simbolo della terra; nelle dodici porte delle rimesse le costellazioni dello zodiaco; nei sette giri di pista previsti per ogni corsa l’orbita dei pianeti.
La corsa era anche il nucleo dei Lupercali che rappresentavano il passaggio celeste dall’inverno alla primavera. In quei giorni regnava un “rex Saturnaliorum” divenuto nel Medioevo “re carnevale” destinato a “morire“- o meglio ad esser destituito- alla fine dell’interregno caotico, il martedì grasso. La sfrenatezza era la rappresentazione del transito dal vecchio al nuovo anno, un passaggio simbolico delle acque interiori. Durante la traversata la paura del passaggio periglioso rende folli coloro si trovano sulla nave. Per questo il “car naval” venne chiamato nel Medioevo “stultifera navis“, la nave dei folli.
Durante il passaggio il corpo del vecchio anno si frantuma nell’indistinto: ognuno perde la propria identità rispondendo al Gioco divino che regge il cosmo. E i giochi sono tipici di questo periodo. Si deve impazzire, si deve ridere, si devono scatenare gli appetiti.
In Grecia fiorirono i culti dionisiaci in onore del dio morto e resuscitato.
Tra febbraio e marzo si celebravano le Antesterie che duravano tre giorni. Il primo giorno si aprivano i vasi di argilla dov’era conservato il vino novello e si portavano al santuario di Dioniso della Palude. Nel secondo giorno, si formava un corteo che rappresentava l’arrivo del Dio dal mare. Nel terzo si rendeva culto. I tre giorni delle Antesterie erano segnati dal ritorno delle anime dei morti considerati dispensatori di fertilità, poiché dalla morte rinasce in germe la vita nuova. In quei giorni si pregava per i defunti, le porte erano cosparse di pece e agghindate con rami di biancospino e si preparavano le panspermie, poltiglie di diversi cereali che dovevano esser consumate prima della notte. E giunto il buio si doveva gridare: “Fuori della porta i morti, le Antesterie sono finite”. Per le strade passava carro dionisiaco che raffigurava Dioniso, il dio risorto rigeneratore del cosmo.
E oggi, per le strade, non sfilano forse tanti carri? Le maschere rappresentano l’epifania dei morti che riaffiorano e si confondono coi vivi nel rimescolamento generale.
Questo periodo di passaggio in Babilonia veniva presentato al popolo con una processione solenne nella quale si fronteggiavano le forze del caos che contrastavano la ricreazione di Marduk il salvatore.
Al culto dei morti è risale anche la tradizione della “Vecchia di Mezzaquaresima” che viene processata e poi uccisa come anno vecchio.
Significato della maschera
La maschera ha una valenza sacro-magica. Le persone normalmente vengono identificate attraverso i lineamenti del volto ma la maschera impedisce questo riconoscimento, annullando la personalità del soggetto che la indossa. Diventa il “volto nuovo” di quel corpo e fornisce un’altra identità, rappresentando un pensiero diverso, che contempla l’incorporeo e le anime dei defunti. La maschera è dunque il mezzo materiale tramite cui l’anima può incontrare il soprannaturale. L’energia vitale è trasferita e liberata sulla “mascara” che supera il limite umano dialogando col sentimento comune.
Le maschere possono incarnare qualità astratte ed ecco che “scoviamo” i piccoli e grandi miti della tradizione popolare: dalla Redònega/Donacia, all’Om Selvarech, alla Caza Selvarega, dalla Procesion de Sant’Orsola a quelle de la Scola (dei morti), Anguane, Mazariol, Martorel, Salvanel, lumara / Prevenco / Trota (incubi notturni).
Il modo più comune per mascherare il volto durante il carnevale consisteva in una tintura col nerofumo ottenuta da un tappo di sughero abbrustolito o dalla fuliggine. Il nero evoca il mondo senza luce da cui provengono gli antenati. Farsi sporcare durante il carnevale era di buon auspicio e sottolineava la valenza sacro-magica della mascherata. Col tempo la gente sostituì la fuliggine pagana con quella cristiana del mercoledì delle ceneri…
Bibliografia: