
A Laste pensavano che i morti uscissero dai sepolcri e percorressero in fila il perimetro del cimitero. Altri narrano che andassero in processione per il paese, fino a raggiungere “l’eiva“- l’acqua- ossia il torrente a valle. Per questo bisognava rientrare prima del buio! Molte persone dicono di aver sentito le voci di questo corteo: ” senti, senti la Scola“. Alcune donne hanno accennato anche alla processione di Santa Orsola “con le so undesemila vergini”, o la “caza selvarega” che conta testimonianze dirette. In ogni caso, l’udire il passaggio dei morti e le loro voci era considerata un’esperienza paurosa.
Con la festa dei morti iniziavano i riti di questua, affidati ai bambini, considerati più vicini a Dio in quanto provenienti dal medesimo mondo ignoto dove la pre-vita e lo spirito immortale si congiungono. Il legame tra bambini e morti era stretto nelle culture arcaiche e appare come un canale privilegiato di comunicazione tra i due mondi. Un bimbo vivo può rappresentare il morto che torna e un bimbo defunto, viene considerato un efficace messaggero per l’aldilà. Nella tradizione nostrana attraverso i “morticini” si mandavano messaggi agli antenati: nelle mani dei bimbi defunti si mettevano piccoli foglietti di carta con le richieste dei vivi.
Per questo, i più piccoli avevano un luogo di sepoltura separato dagli adulti, detto “cimitero degli angeli“. I parenti, specie i genitori, consideravano la morte del figlio di buon auspicio, in quanto il loro trapasso sarebbe stato più facile e sereno.
A Laste di Rocca Pietore, fino agli anni cinquanta, la scomparsa di un infante veniva festeggiata con canti, balli, pranzi e si preparavano gli stessi dolci che offerti ai matrimoni.
Le vesti funebri erano bianche. Venivano ricoperte con “cordele de i mortolin” ossia fettuccine colorate, simili a quelle indossate dai Matacinch, i personaggi guida dei carnevali locali.
Nel Trevigiano i “mortesin” si chiamavano “angioletti” e venivano accompagnati nell’ultima dimora dai coetanei che lungo il percorso, spogliavano dei bianchi fiori -la corona mortuaria- fatta col “fior d’angelo” (Philadelphus virginalis). Ciascuno di essi inalberava una piccola lancia bianca con una bandiera tagliata in diagonale. L’altra merà era impiegata per vestire i bambini che partecipavano a “la sasolada dei morti“, la questua che i piccoli, mascherati col nerofumo, facevano alla vigilia dei defunti. Le famiglie pulivano le zucche e le illuminavano con una candela a simboleggiare i teschi. La piccola mascherata, passando di casa in casa gridava: “co erimo vivi, gironsi sti cortivi; adeso che semo morti, se gira par sti orti” (quando eravamo in vita correvamo per questi cortili, ora che siamo morti andiamo a spasso per questi orti).
A livello familiare esisteva la volontà di far sopravvivere gli antenati nella perpetuazione dei nomi di famiglia. Dare ai bambini dei doni, generi alimentari per lo più, equivaleva ad offrire del cibo ai morti riconoscendo la loro esistenza e rinnovata comunione coi vivi. Attraverso il potere proveniente dall’aldilà così gratificato, i vivi avrebbero ottenuto ciò che invocavano.
Per questo, i più piccoli avevano un luogo di sepoltura separato dagli adulti, detto “cimitero degli angeli“. I parenti, specie i genitori, consideravano la morte del figlio di buon auspicio, in quanto il loro trapasso sarebbe stato più facile e sereno.
A Laste di Rocca Pietore, fino agli anni cinquanta, la scomparsa di un infante veniva festeggiata con canti, balli, pranzi e si preparavano gli stessi dolci che offerti ai matrimoni.
Le vesti funebri erano bianche. Venivano ricoperte con “cordele de i mortolin” ossia fettuccine colorate, simili a quelle indossate dai Matacinch, i personaggi guida dei carnevali locali.
Nel Trevigiano i “mortesin” si chiamavano “angioletti” e venivano accompagnati nell’ultima dimora dai coetanei che lungo il percorso, spogliavano dei bianchi fiori -la corona mortuaria- fatta col “fior d’angelo” (Philadelphus virginalis). Ciascuno di essi inalberava una piccola lancia bianca con una bandiera tagliata in diagonale. L’altra merà era impiegata per vestire i bambini che partecipavano a “la sasolada dei morti“, la questua che i piccoli, mascherati col nerofumo, facevano alla vigilia dei defunti. Le famiglie pulivano le zucche e le illuminavano con una candela a simboleggiare i teschi. La piccola mascherata, passando di casa in casa gridava: “co erimo vivi, gironsi sti cortivi; adeso che semo morti, se gira par sti orti” (quando eravamo in vita correvamo per questi cortili, ora che siamo morti andiamo a spasso per questi orti).
A livello familiare esisteva la volontà di far sopravvivere gli antenati nella perpetuazione dei nomi di famiglia. Dare ai bambini dei doni, generi alimentari per lo più, equivaleva ad offrire del cibo ai morti riconoscendo la loro esistenza e rinnovata comunione coi vivi. Attraverso il potere proveniente dall’aldilà così gratificato, i vivi avrebbero ottenuto ciò che invocavano.
21 Ottobre: Sant’Orsola

Analogie fra Sant’Orsola e la dea Freyja
Il nome Orsola deriva dal latino Ursula che significa “piccola orsa“. È possibile che nella leggenda di Sant’Orsola si celi l’eco di un antico mito pagano relativo alla dea Freyja che, col nome di “Horsel od Ursel”, accoglieva nell’Aldilà le fanciulle defunte. La leggenda delle undicimila vergini nacque da un errore di trascrizione dove era indicato il “martirio di Orsola e delle sue compagne ad undecim milia (o ad undecim miliarium) ovvero in un luogo a undici miglia (o all’undicesimo miliario) dalla città di Colonia. La festa di sant’Orsola cade proprio prima del Capodanno Celitco, quasi a richiamare l’eco di un’antica madre che custodiva le anime dei defunti.
Il nome Orsola deriva dal latino Ursula che significa “piccola orsa“. È possibile che nella leggenda di Sant’Orsola si celi l’eco di un antico mito pagano relativo alla dea Freyja che, col nome di “Horsel od Ursel”, accoglieva nell’Aldilà le fanciulle defunte. La leggenda delle undicimila vergini nacque da un errore di trascrizione dove era indicato il “martirio di Orsola e delle sue compagne ad undecim milia (o ad undecim miliarium) ovvero in un luogo a undici miglia (o all’undicesimo miliario) dalla città di Colonia. La festa di sant’Orsola cade proprio prima del Capodanno Celitco, quasi a richiamare l’eco di un’antica madre che custodiva le anime dei defunti.
Freyja
